la storia

"Questo è il racconto di un luogo, Casa al dono, e di un’opera collettiva, delle persone che lo hanno trasformato negli ultimi dieci anni in un centro di sperimentazione comunitaria e della scoperta della sua storia lunga secoli."

Simona Cavalca e Beniamino Vitale

CASA AL DONO. La sede del Centro Studi Utopia, Prospettiva Edizioni

Un primo documento che testimonia l’esistenza di Casa al dono risale al 1649.
Nei secoli successivi, la cascina originaria fu rimaneggiata ed ampliata da alcune famiglie nobili fiorentine, dai marchesi Peruzzi ai principi Corsini, che ne costruirono i grandi saloni centrali e ne fecero la propria dimora estiva. È nell’ultimo decennio dell’ottocento che Bernard Berenson, critico d’arte appassionato del rinascimento fiorentino, comincia a frequentare Vallombrosa, innamorandosi degli splendidi paesaggi naturalistici, meta di piacevolissime passeggiate estive. Dove aver trascorso numerose estati in varie abitazioni della zona tra Consuma e Vallombrosa, nel 1938 Berenson visitò Casa al dono e da allora ne fece la sua residenza estiva e luogo di incontro e ospitalità di svariati artisti, tra cui Alberto Moravia, Ray Bradbury, Ernest Hemingway.
Grazie alla generosità di Berenson e della sua segretaria Nicky Mariano, nel periodo bellico, la casa fu luogo di accoglienza e rifugio per tanti perseguitati dal nazi-fascismo, tra cui Giovanni e Flavia Colacicchi e poi di tanti altri; partigiani, renitenti alla leva, artisti quali Onofrio Martinelli e Adriana Pincherle, famosi pittori fiorentini. Nel dopoguerra questi ultimi fondarono una corrente artistica denominata Nuovo umanesimo, per noi testimonianza di un genius loci che vive da lungo tempo in questo luogo.
Nel periodo bellico, la Casa fu luogo di accoglienza e rifugio per tanti perseguitati dal nazi-fascismo, tra cui Giovanni e Flavia Colacicchi e poi di tanti altri; partigiani, renitenti alla leva, artisti […] Giovanni Colacicchi (1900-1992), Paesaggio
artiste e artisti a Vallombrosa La storia racconta di un giovane poeta inglese che nel 1638 intraprende un viaggio per il continente raggiungendo l’Italia. Il suo nome era John Milton, e di lì a poco riuscirà a conoscere Galileo Galilei, già
anziano e cieco, che gli offrirà l’occasione di scoprire la foresta di Vallombrosa. È possibile che il luogo non gli fosse del tutto nuovo: amante della letteratura italiana, conoscitore dell’Orlando furioso, forse ricordava il passo in cui Ariosto parla di Vallombrosa e della sua “badia ricca e bella, né men religiosa, e cortese a chiunque vi venìa”. Non sappiamo quanto tempo rimarrà ospite dei frati nel vecchio “romitorio” sopra l’abbazia, chiamato poi Paradisino, che godeva di una vista sublime della montagna e della sua foresta, ma siamo sicuri che l’ispirazione del paesaggio sul poeta fu così intensa che quasi trent’anni dopo lo evocherà nel suo capolavoro, Il paradiso perduto. La sua raffigurazione sarà così potente da ispirare generazioni successive di viandanti che a partire del Settecento cominceranno una sorta di pellegrinaggi nella zona, alla ricerca delle atmosfere miltoniane. Numerosi artisti, in particolare di lingua inglese, visiteranno il luogo e lasceranno traccia nelle loro opere e diari di viaggio. Tra di essi, il poeta romantico William Wordsworth, la scrittrice Mary Shelley, i poeti Robert ed Elizabeth Barret Browning e lo scrittore americano Henry James.